Articoli di Giovanni Papini

1955


in "Schegge":
Fuori di stagione
Pubblicato in: Il nuovo Corriere della Sera, anno LXXX, fasc. 175, p. 3
Data: 24 luglio 1955


pag. 3




   Da quando non posso più girare per boschi e per vie, da quando non posso piu rubare un fiore al campo nè una ciocca all'albero, da quando non posso più entrare nella grotta odorosa del fioraio, da quando sono condannato a star fermo, seduto tutto il giorno ad aspettare in silenzio, mi sembra di essere divenuto la statua di un tabernacolo nel quale i devoti posano, ogni tanto, una viva « natura morta ».
   Appena l'inverno accondiscende alle prime tentazioni del sole cioè verso la metà di febbraio, la mia Giacinta sparisce d casa e torna dopo un paio d'ore rossa, ridente e trionfante, come quando aveva vent'anni, per offrirmi le prime violammammole che ha potuto scovare i quella boscaglia di Castel di Poggio o in quella siepe di Santa Margherita a Montici, dove tante volte le abbiamo colte insieme. Sono un po' pallidine, un po' infreddolite e non mandano un gran profumo, ma lei è così felice di mettermele sotto gli occhi appannati che, per un momento, sono felice anch'io. Essa accomoda la sua primaticcia preda dentro un bicchierino pieno d'acqua e lo posa sull'orlo della tavola vicino alla mia poltrona.
   Passano alcune settimane ed ecco arrivare, nel brillio di una sfaccettata mattina di sole, la mia Viola che brandisce un ramo di mandorlo fiorito come se fosse un gonfalone vittorioso e mi grida, con la sua voce più bella, vibrante di appassionata letizia:
   — Babbo, babbo, vengo a darti una grande notizia: è arrivata la Primavera!
   Agita il ramo sopra il mio viso e riesco a scorgere — forse a indovinare — la lievissima velatura di rosa carnicino che è in fondo a ogni petalo color neve di marzo. Anche il mandorlo viene appoggiato sul margine della scrivania perchè io possa intravederne la fragile grazia e la pericolante guarnitura. La mia primogenita sorride e ride, consolata e compensata dal mio sorriso, e mi par di rivederla quando era bambina e tornava correndo dallo Spicchio, stringendo nel piccolo roseo pugno una margherita dall'occhio di zolfo o un fior di radicchio più azzurro del cielo.
   E' la Domenica delle Palme. Appena disceso nello studio sento irrompere e fragoreggiare nel corridoio la squillante voce della Luisa, la moglie di mio fratello. A dispetto dei suoi malanni è sempre mattiniera; ha già ascoltato una delle prime messe e mi porta per augurio due belle ciocche di ulivo benedetto. Le foglioline dell'ulivo sono appaiate in ordine colle punte rivolte in su e quasi tutte mostrano la faccia interna col suo pallore verdolino venato di bianco. La Luisa, sempre parlando e ridendo, depone i ramoscelli di ulivo sui miei ginocchi affinchè la benedizione mi tenga compagnia tutta la giornata.
   A mezzogiorno del Sabato Santo si precipita all'improvviso nella mia stanza l'Ilaria, che torna da Roma, e prima ancora di baciarmi mi porge un piccolo fresco mazzo di anemoni e di primule. L'Ilaria è molto cambiata in questi ultimi anni. I suoi occhi glauchi sono sempre belli ma non così lucenti e contenti come quando era bambina: il suo volto è diventato più espressivo ma con una strana espressione di malinconia entusiasta, di amarezza coraggiosa, di trepidanza sormontata. Par che aspetti ancora la parola d'ordine del suo destino e intanto vi è già un'ombra di mestizia nel suo ricordo e un fremito di nostalgia nella sua speranza.
   Gli anemoni e le primule vengono disposti in un vaso e posati sulla mia tavola perchè mi giunga almeno qualche tenue ondata del loro umido odore acreste.
   Si avvicina l'estate con i suoi bollori intermittenti di calura capricciosa e furiosa. L'Anna, quella che più di tutti mi aiuta a lavorare, cioè a vivere, ha diritto di prendere ogni tanto una sorsata d'aria libera e di lasciare la caligine della città per salire verso i poggi ancora sereni e ventilati. Dalla sua prima fuga ritorna con ardore festoso ed ha tra le braccia un enorme fascio di ginestre fiorite, che riempiono il mio studio con la loro fragranza zuccherina e montanina e illuminano la penombra col loro giallo ardente ma innocente. L'Anna non sembra più quella di tutti i giorni che attende con tacita pazienza le mie faticose e faticate parole per registrarle sui fogli o che legge con voce sonora e celere le volanti strofe dei poeti o le attristanti colonne dei giornali. La sua bellezza, che ha la fortuna di non somigliare a nessun'altra. è divenuta, nell'allegrezza della sortita, più evidente e nuova. Sembra una orientale nata nel settentrione, sembra che unisca la semplicità della giovinetta con la fierezza della matrona, sembra abbia in sè la luce di una slava e la fiamma di una mediterranea, i suoi occhi scuri scintillano per irrequietezza gioiosa, sulle guance accaldate fiorisce il bel vermiglio del sangue sano e giovane e un sorriso di generosa conquista irraggia l'ovale del suo viso attento.
   Assetta rapidamente le ginestre arruffate e ne lascia metà sopra un tavolino dove teniamo di solito i libri in lettura. Ho l'impressione che tutta la stanza sia trasfigurata, che la vita quotidiana sia trasformata e che l'Anna non sia più la mia fedele alleata contro il buio e il silenzio ma una improvvisa apparizione della gioventù eterna che sia venuta a portarmi una meravigliosa ambasciata dell'eterna natura.


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